APPUNTI DI VIAGGIO: Ostia antica, Tivoli (Villa Adriana e Villa d’Este), Palestrina, Cerveteri.

Il viaggio di primavera (25-27aprile 2010) nell’antico Lazio ha offerto ai soci dell’AICC di Treviso l’occasione di ripercorrere momenti salienti della storia di Roma e delle civiltà italiche attraverso la visita di luoghi carichi di memorie e di suggestioni, dall’approdo di Enea alle  foci del Tevere alle celebri città di fondazione greca ed etrusca nei colli laziali, costellati in età repubblicana e imperiale di ville spogliate nel tempo dei loro tesori d’arte ma che fastose dimore di principi del Rinascimento vollero emulare. Il prof. Pietro Colombi ha presentato e commentato una scelta delle immagini fotografiche più significative del viaggio nell’incontro del 25 novembre 2010.
 
Prima tappa del viaggio è stata Ostia, la più antica colonia romana in Italia, fondata non lontano dalla spiaggia di Laurentum dove, secondo il racconto di Virgilio, sarebbe approdato Enea (En. VII 25-36). Dell’importanza assunta in età regia dall’antica città dei Latini danno testimonianza le fonti letterarie: Livio (I 33,9) racconta infatti che in prossimità delle foci del Tevere, a ridosso di un’ansa dell’antico corso del fiume e non lontano da un lago, Anco Marzio fondò il primo porto di Roma e contemporaneamente avviò lo sfruttamento delle saline nelle vicinanze; all’età repubblicana (IV  sec.) risalgono invece le mura, ancora ben visibili, in blocchi squadrati di tufo di Fidene che delimitavano l’area (200 metri x 120) di un castrum sorto per  controllare  l’accesso a Roma per via fluviale, con la tipica struttura della città militare caratterizzata dallo spiazzo del foro all’incrocio dei  due assi viari principali, cardo e decumanus. Il porto crebbe d’importanza con l’intensificarsi dei rapporti tra Roma e la Magna Grecia e successivamente svolse un ruolo come base navale militare (da Ostia partirono le due spedizioni degli Scipioni in Spagna nell’ultima fase della  guerra annibalica) e anche la città  si ampliò ulteriormente nel II e I sec., quando le  mura sillane giunsero a includere un territorio di circa 70 ettari. Tuttavia al tempo del grandioso rinnovamento edilizio d’età augustea, secondo la testimonianza del geografo Strabone (V 3,5), Ostia  era senza porto a causa dei depositi alluvionali del Tevere: perciò  le navi  erano costrette a scaricare al largo le merci che poi risalivano il Tevere su imbarcazioni leggere per 190 stadi (4 km); di conseguenza l’imperatore Claudio diede inizio alla costruzione di un nuovo scalo  commerciale (3 km più a nord), un bacino di forma esagonale che ingrandito e attrezzato era noto come il “porto di Traiano”, anche se l’opera fu completata da Adriano, e si sviluppò una nuova città mercantile di cui  recenti scavi hanno portato alla luce l’ anfiteatro delle stesse dimensioni del Colosseo. Anche dopo aver perso in parte la sua importanza come emporio e come base militare (in età imperiale la flotta era concentrata al Miseno) a Ostia continuò per secoli la vita tipica di una città romana.
   Per l’organica articolazione degli spazi, la varietà degli  edifici pubblici e privati, la complessità delle strutture e delle tecniche costruttive impiegate l’area archeologica di Ostia antica offre un significativo esempio di urbanizzazione d’età tardo repubblicana e imperiale. Entrando nella città dalla via Ostiense che collegava la colonia a Roma, fiancheggiata da sepolture di varie epoche e tipologie, si raggiunge l’area del  foro, dominato dal Capitolium, con  l’attiguo tempio di Roma e Augusto (di cui restano alcune strutture e frammenti della decorazione scultorea), e il teatro costruito da Augusto e ingrandito da Tiberio capace di 4000 persone, ancora adibito a spettacoli estivi; accanto agli edifici pubblici danno testimonianza della vita quotidiana i forni, le botteghe, i termopolia (alcuni con insegna e banco di mescita), i quartieri d’abitazione. Nel Foro delle Corporazioni di particolare interesse sono i  mosaici pavimentali delle numerose Case (ditte commerciali), veri uffici di rappresentanza degli empori del Mediterraneo: raffigurano con grande efficacia i porti della costa tunisina, dell’alto Tirreno, della Sardegna con cui Ostia aveva relazioni per l’importazione ed esportazione di merci e di prodotti d’ogni genere. Significativi sono anche i resti delle strutture e i  mosaici pavimentali della Caserma dei Vigili del fuoco che rappresentano scene di sacrificio, e quelli delle Terme, in genere a soggetti marini e mitologici; ma nelle Terme dei Carrettieri la decorazione musiva si ispira invece alla vita quotidiana e protagonisti delle scenette  sono gli asini, raffigurati con realistica evidenza e identificati da nomi parlanti.
  La varietà degli edifici sacri testimonia la pacifica convivenza di culti locali (Apollo, Ercole) e stranieri (Mitra, Oside, Attis, Cibele, Gran Madre) e soprattutto documenta il complesso tessuto etnico e sociale della città cosmopolita. Si conservano anche le strutture dell’antica sinagoga (a Ostia era presente infatti una forte comunità di Ebrei dediti ad attività produttive e commerciali), mentre il culto cristiano non è attestato nei primissimi secoli: l’edificio più antico sembra essere stato la Chiesa di S. Ciriaco; Ostia divenne però sede vescovile nel IV secolo e conserva  memoria del passaggio di  S. Agostino che vi approdò di ritorno in Tunisia con la madre Monica, morta qui e sepolta nella chiesa di S. Aurea, nel borgo medievale dominato dalla fortezza di Giulio II.  

Praeneste (Palestrina) e Tibur (Tivoli) erano antichissime città greche secondo il geografo Strabone (V 3, 11) che ne indica anche i mitici fondatori: rispettivamente Telegono figlio di Circe e Odisseo per l’una, i tre fratelli nati da Anfiarao (l’indovino della guerra dei Sette contro Tebe, inghiottito dalla terra) per la seconda: mitiche origini celebrate anche dai poeti augustei. Strabone precisa inoltre che le due città sorgono a 100 stadi una dall’altra, sulle stesse alture, e che Preneste dista 200 stadi da Roma, Tivoli  ancora meno (solo 28 km).
   Di Praeneste il geografo  riferisce anche il nome greco, Polustefanos, “dalle molte corone”, certo dovuto ai caratteristici terrazzamenti che cingono il monte Ginestro fino alla sommità e culminano in  un’imponente costruzione sulla cima, ora rocca  di S. Pietro, ma nell’antichità tempio di Juppiter Arcanus (da arx); Strabone accenna  anche alle difese naturali, ai condotti sotterranei scavati per l’approvvigionamento d’acqua e per uscite segrete dalle mura, alle disgrazie patite dalla città munita dove molti nemici di Roma (tra i quali il figlio di Mario) cercarono rifugio. Posta alla confluenza di importanti strade che la mettevano in comunicazione con Etruria e Campania, attivo centro commerciale in relazione con l’Oriente, la città possedeva ricchezze enormi accumulate da alcune famiglie dedite al commercio degli schiavi che avevano stretti rapporti con l’isola di Delo, il mercato schiavile più importante del Mediterraneo.
  Tra gli edifici notevoli Strabone segnala  il tempio della Fortuna, celebre per i suoi oracoli; già salendo verso il grandioso recinto sacro dall’abitato medievale, nel groviglio dei vicoli e delle grotte che circondano il Duomo dedicato a S. Agapito (edificato sopra un antico tempio di Giunone, di cui rimangono  alcune tracce  nella cripta), dove anticamente c’era il Foro, si intravedono i resti di un edificio chiamato “Antro delle sorti”, in realtà un tempio di Serapide che fiancheggiava la Basilica civile, gemello del tempio di Iside detto ora “Aula Absidata” che sorgeva sul lato opposto della piazza. Al tempio della Fortuna  anticamente si accedeva da due rampe laterali, una delle quali coperta; nella terrazza mediana, davanti ai resti di una struttura absidata, è ancora ben visibile il celebre pozzo con funzione oracolare descritto da Cicerone (Divin. II 41) dove venivano gettate tessere di legno incise con lettere di un alfabeto arcaico che un puer estraeva dalla cavità porgendole all’interrogante. Il tempio (fine II sec. a.C.) è un grandioso esempio di architettura ellenistico-italica (come il coevo santuario di Eracle Vincitore a Tivoli, che era disposto su sette balze); dall’ultima imponente terrazza, fiancheggiata su tre lati da portici e in origine comunicante attraverso una porta monumentale con il teatro edificato alle spalle del santuario,  lo sguardo spazia verso l’ampia vallata. Sopra il coronamento della cavea, oltre l’ultima fila di gradinate dell’antico teatro, sorse in età rinascimentale il Palazzo Colonna ampliato dai Barberini che ospita attualmente  il Museo Archeologico Prenestino; dietro il palazzo un edificio circolare (in parte visibile e ipoteticamente ricostruito in una sala del Museo) era  probabilmente la sede dell’oracolo.
  Tra i notevoli reperti esposti nel Museo spicca nella prima sala la testa gigantesca della Fortuna Primigenia appartenente a una statua che raffigurava la dea con in braccio Giove e Giunone bambini allattati al seno, collocata originariamente nella terrazza absidata prospiciente il pozzo delle sorti: la dea era  invocata infatti dalle donne che venivano a chiederle la fertilità e a interrogarla sulla fortuna  del nascituro. Altrettanto imponente è la statua in marmo grigio della Fortuna chiaramente assimilata a Iside per influsso di raffigurazioni di Delo. Nelle altre sale sono esposti anche ritrovamenti che provengono dal tempio grandioso fuori della cinta muraria, sugli antichi sentieri della transumanza, dedicato a  Ercole protettore delle greggi e dei pastori; inoltre sono numerose e interessanti le testimonianze di culti misterici orientali (Cibele e Mitra). Tra gli oggetti provenienti dai ricchissimi corredi di tombe della necropoli si ammirano splendidi specchi incisi a soggetti mitologici (altri sono conservati al Museo etrusco di Villa Giulia a Roma), fibulae di raffinatissima fattura e cistae di bronzo con coperchio istoriato o ornato con figure (da Preneste come è noto provengono sia la ‘fibula prenestina’ con una delle più antiche iscrizioni in latino – VIII-VII sec., ma l’autenticità del manufatto è dubbia - sia la celebre ‘Cista Ficoroni’ pure firmata dall’artista, entrambe  conservate a Roma), eleganti oggetti per la toeletta muliebre. Tra i numerosi bassorilievi di ottima fattura spicca  la lastra marmorea raffigurante un cinghiale con i suoi piccoli, coeva dei rilievi dell’Ara pacis e analoga per la raffigurazione idilliaca della  natura; l’elegante pannello scolpito, utilizzato nel rivestimento di una fontana, faceva parte delle celebri “sculture Grimani” (altre due lastre si trovano ora al Museo Archeologico di Vienna, il frammento di una terza a Budapest).
   Il reperto più imponente conservato nel Museo è il “Mosaico del Nilo” ora collocato a parete, ma in origine pavimentazione di un lussuoso edificio absidato nella zona del Foro; staccato e sezionato, portato a Roma, più volte danneggiato, in parte venduto o donato (una sezione si trova ora al Museo di Berlino) è stato ricomposto, forse arbitrariamente, colmando le lacune  con copie. Il soggetto  è la piena del fiume, rappresentato in tutta la sua lunghezza dal corso superiore (il  paesaggio roccioso della Nubia popolato di animali, nella sezione alta, semicircolare) fino al porto di Alessandria nel Delta, dove il ricevimento di una  ambasceria sotto un padiglione regale allude probabilmente a qualche evento relativo ai Tolomei; lungo tutto il percorso del fiume sono minuziosamente raffigurate scene di vita civile e religiosa, animali e piante. Il mosaico è coevo della notissima  Battaglia di Isso (Alessandro il Macedone affronta Dario di Persia), proveniente da Pompei e conservato ora al Museo di Napoli, e come quello riproduce con assoluta fedeltà attraverso l’impiego di tessere policrome molto minute una pittura parietale greco-ellenistica.
   Un altro reperto eccezionale è il bassorilievo marmoreo della Triade Capitolina, un capolavoro trafugato e venduto dagli scavatori clandestini, recentemente recuperato dopo una lunga battaglia legale; le tre  divinità - Giove al centro, ai lati Giunone e Minerva – sono raffigurate assise su un unico  trono, tutte con uguale dignità, con i rispettivi simboli ai piedi (aquila, pavone, civetta) e incoronate da vittorie alate con ghirlande di quercia, di rose e d’alloro. Una raffigurazione della triade divina era collocata nel  Capitolium di ogni città, ma questa è l’unica che si sia conservata integra.

  Di Tivoli Strabone (V 3,11) si limita a dire che era una città fortificata come Preneste; descrive  invece la cascata dell’Aniene che precipita da grande altezza in una valle  boscosa e profonda presso la città e accenna al trasporto via fiume della pietra tiburtina utilizzata,  come quella rossa di Gabii, per i grandi monumenti di Roma; annota poi che nella  pianura scorrono, sgorgando da molte fonti, le acque medicamentose chiamate Albule e non lontano le Labane, salutari sia per bere che per bagnarsi, ancora rinomate. E’ proprio questo il paesaggio amato e mitizzato dai poeti: Virgilio descrive la fonte sulfurea di Albunea con l’oracolo di Fauno consultato dal re Latino, nel sacro bosco presso la fonte le cui acque precipitano formando un’alta cascata (En. VII 81-101); una splendida descrizione del luogo si legge in Orazio che dichiara di preferire Tivoli alle più illustri città d’Asia e di Grecia (Odi I 7, 12-15) e ancora la fonte Albunea e il bosco sacro dell’eroe fondatore Tiburtino evoca il poeta (Odi II 6,5-6) confidando  a un amico pronto a seguirlo in capo al mondo l’ augurio che Tivoli sia rifugio della sua estrema vecchiaia. A Tivoli per testimonianza di Svetonio Orazio possedeva infatti una casetta (di cui si conserva ricordo nella toponomastica della città), certo non celebre come la villa sabina. Ma in questi luoghi ameni già amava soggiornare Catullo che in versi scanzonati (c.44) ringrazia il suo  podere posto tra Tivoli e la Sabina per averlo guarito  dall’infreddatura provocata da una lettura sgradevole. 
  Naturalmente a Tivoli i potenti, come Augusto e Mecenate, avevano lussuose ville. Ma tutte furono superate dalla residenza che l’imperatore Adriano progettò e si fece costruire tra il 118 e il 134. La “Villa Adriana”, come ben illustra il plastico all’ingresso dell’area archeologica, era immensa (si estendeva per 300 ettari, di cui solo un quinto scavati); costruita in posizione strategica tra la Via Prenestina e la Via Tiburtina su un pianoro ricco d’acque e alla convergenza di quattro acquedotti (Anio vetus e Anio Novus, Aqua Marcia e Aqua Claudia), sfruttava le caratteristiche del territorio con i suoi immensi giardini (oggi piantati a ulivi) e con numerosi specchi d’acqua e fontane monumentali; la villa imperiale  includeva due costruzioni preesistenti, le ville d’età repubblicana dei Vibii e degli Aelii (la zona era fitta di ville di ricchi spagnoli), ma la parte nuova che riflette i gusti, la cultura e anche le ambizioni artistiche di Adriano è sorprendente per la genialità e originalità delle soluzioni architettoniche e per la spiccata predilezione per linee curve e coperture a calotta degli edifici.
  Viaggiatore instancabile, Adriano aveva voluto riprodurre nella sua Villa gli edifici-simbolo dei luoghi visitati, in particolare in Atene e in Egitto. Del Pecile eretto sul modello della Stoa poikile - il portico dipinto di Atene, centro della vita politica e culturale della città - resta la muratura nuda, mentre sono scomparsi gli affreschi e le colonne che sostenevano il tetto a doppio spiovente della lunghissima passeggiata coperta che cingeva un giardino dominato al centro da una fontana. Di intatta suggestione è il lungo specchio d’acqua dell’Euripo costruito per evocare  il canale che univa Alessandria a Canopo dove si era suicidato l’amato Antinoo, con i bordi un tempo adorni di sculture e fiancheggiati da alberi e pergolati concluso da uno spettacolare ninfeo-triclinio scavato nella roccia. Più ancora dei resti grandiosi delle Piccole e Grandi Terme con tracce di raffinate decorazioni e della Palestra suscita ammirazione il complesso del Teatro marittimo (così denominato per le decorazioni di carattere marino) con al centro l’isoletta unita al grande portico circolare da un ponte levatoio, nella quale  Adriano si ritirava in solitudine in un palazzo in miniatura dotato di terme personali, triclini e cubicula comunicante attraverso una scala con le due Biblioteche, greca e latina;  l’anello d’acqua che cinge la domus era usato dal principe come piscina natatoria. Le dimensioni del complesso sono significativamente analoghe a quelle del Pantheon (il tempio edificato a Roma da Agrippa ma ampliato e audacemente rinnovato da Adriano).
  Adriano aveva raccolto nella Villa una collezione di 400 statue alcune delle quali si ammirano ora  in importanti Musei e in varie collezioni pubbliche e private (le Amazzoni copie dei capolavori di Fidia e di Prassitele nell’Antiquarium della Villa, le nove Muse al Prado, il Centauro in porfido rosso ai Musei Capitolini, il mosaico della lotta dei centauri con le tigri a Berlino); statue-ritratto di Antinoo e della moglie di Adriano, Vibia Sabina, ornavano la Piazza d’Oro al centro della residenza imperiale e sono disseminate in numerosissime repliche in tutte le Province.
 
  A  partire dalla metà del ‘500 nell’area della grandiosa Villa di Adriano già saccheggiata per secoli furono condotti scavi sistematici alla ricerca di tesori d’arte, patrocinati da Ippolito d’Este: appena nominato governatore di Tivoli, il cardinale (che è sepolto nella chiesa attigua alla Villa, S. Maria Maggiore) progettava infatti di ampliare e di abbellire la sua residenza, un antico convento edificato sui resti di una vastissima domus romana in posizione straordinaria  sulla spianata che domina la Valle Gaudente. A emulazione della reggia adrianea (di cui l’architetto del Cardinale, Pirro Ligorio, studiò l’impianto e disegnò la prima mappa) prese così forma la Villa d’Este, straordinaria per l’elegante impianto architettonico e per la ricchezza delle decorazioni e degli affreschi che impreziosiscono gli ambienti di tutto il complesso secondo un organico programma iconografico.    
  Di particolare interesse nelle sale ai due lati dell’ambiente centrale (la Sala della Fontana, la più importante del Palazzo) sono le pitture ispirate ai poeti augustei che illustrano le antiche leggende del territorio di Tivoli stabilendo  una  continuità tra passato e presente, espressione della profonda cultura umanistica e della passione antiquaria del Cardinale e dei suoi collaboratori. Le pareti e il soffitto delle due Sale Tiburtine sono affrescate con scene tratte da racconti mitici  connessi con i tre fiumi del luogo (Tevere, Aniene, Erculaneo) e con la fondazione di Tivoli: nella prima  Ino figlia del re di Tebe Cadmo per sfuggire al marito impazzito si getta in mare con il figlioletto Melicerte; madre e figlio furono divinizzati dai greci e onorati con il nome di Leucotea e Palemone, racconta Ovidio (Metam. IV 519-42), che riprende e amplia un cenno omerico (Od. V 333-35), ma nella versione italica della leggenda sono salvati da Nettuno che li fa giungere nel Lazio dove sono accolti dalla profetica Carmenta madre di Evandro e onorati come protettori delle madri e dei porti con il nome di Mater Matuta e di Portumnus (Fasti VI 527-550). Ovidio li identifica dunque con antiche divinità laziali dell’alba e del mattino cui accennano già Lucrezio (V, 656), Cicerone (Tusc. I 28) e Livio (V 19,6); invece nella tradizione accolta da Virgilio (En. VII 81-101) - che descrive un arcaico rito di incubazione per interrogare l’oracolo - Leucotea, accolta dal fiume Aniene e nascosta nelle vicine selve, fu mutata nella sorgente dalle acque candide Albunea, presso la quale tra i vapori (provocati da suo figlio Mefite) dava responsi quella che Varrone chiama Sibilla Tiburtina (è la decima sibilla della tradizione cristiana); il racconto che si snoda nei riquadri e nei medaglioni della sala saldando armonicamente tutte queste tradizioni culmina nel trionfo della dea straniera, adorata dalle genti del luogo come Mater Matuta e raffigurata come un idolo d’oro. Nel lato corto della sala il re Anio  insegue Mercurio per sottrargli la figlia rapita Clori e viene inghiottito assieme al suo cavallo dai gorghi del fiume che da lui prende nome (Anio-onis =Anien-nis).
  Nella sala contigua  i tre fratelli Catilo, Tiburto e Corace figli di Anfiarao partiti da Argo  sbarcano in Italia, lottano con i Latini per impadronirsi del luogo, fondano la città di Tibur, come raccontano Virgilio (En. VII 670-72) e Orazio (Odi II 6), tracciando il solco primigenio con l’aratro, infine rendono omaggio agli dei con sacrifici di ringraziamento. Nella parete minore della sala è raffigurata una leggenda locale connessa con la decima fatica di Ercole (il furto dei buoi di Gerione): la lotta per difendere la mandria  contro i briganti del Lazio vinta con l’aiuto di Giove che fa piovere  pietre dal cielo, da cui all’eroe derivò l’appellativo di Sassano (e quello di Acque Sassane alle non lontane sorgenti termali).
 Tutta la stanza attigua sull’altro lato alla grande Sala della Fontana è affrescata con il ciclo delle imprese di Ercole, omaggio al nume tutelare del luogo (nei pressi della Villa sorgeva il grandioso tempio di Ercole Vincitore, coevo di quello della Fortuna di Preneste) ma anche riferimento al capostipite della famiglia del Cardinale, Ercole d’Este, e ancora allusione al terzo fiume tiburtino, Erculaneo: sono raffigurate le dodici fatiche dell’eroe, talvolta in vivaci interpretazioni e aggiornamenti del mito (come Eracle che corre portando sottobraccio, spezzate, le colonne che avevano reso inviolabile l’Oceano); il ciclo culmina con la divinizzazione dell’eroe accolto in cielo dal padre Giove e dagli dei festanti,  raffigurata nel soffitto della sala in un audace gioco prospettico.
  Il filo conduttore delle sale contigue alla Sala della Fontana è l’acqua vivificante, simboleggiata nel cortile dal bassorilievo di Venere nympha loci adagiata sotto una pergola di mele d’oro (allusione ai pomi delle Esperidi emblema, assieme all’aquila bianca, del cardinale) e l’acqua trionfa nei giardini comunicanti con la loggia dove l’emulazione della residenza adrianea è più tangibile. Infatti la Valle Gaudente ai piedi dell’imponente edificio accoglie nei  terrazzamenti, digradanti verso la Porta Romana fino al limite delle mura medievali di Tivoli, stupefacenti teatri d’acqua alimentati dalle correnti dell’Aniene captate alla sorgente e canalizzate con opere poderose. E’ la parte più spettacolare della Villa, splendido esempio di giardino all’italiana, disseminato di fontane che evocano antiche divinità e antichi miti, divenuto celebre e imitato in tutta l’Europa.
 Il Cardinale Ippolito d’Este non era stato autorizzato a costruire un grande palazzo a Roma e più volte vide respinta la sua candidatura al pontificato, ma si prese la rivincita edificando questo superbo complesso; e proprio all’ inizio del primo terrazzamento che accoglie la grotta di Ino-Leucotea-Albunea, dietro la grande statua della dea Roma Vittoriosa, fece costruire in scala ridotta gli edifici più importanti della città, chiamandoli “la Rometta” (ora in gran parte distrutti). Ma la sfida con la capitale era soprattutto culturale: il grande mecenate, protettore di Benvenuto Cellini e di Torquato Tasso, volle infatti che sale,  logge, giardini di Villa d’Este fossero un’Accademia dove riunire i più importanti studiosi, letterati, musicisti, scienziati, artisti del suo tempo.
 
  L’ultima tappa del viaggio è Cerveteri, Caere vetus, distante solo una cinquantina di km da Roma, con la visita alle tombe a tumulo e a dado della necropoli della Banditaccia. Prima della conquista romana Caere era stata una delle città più floride della dodecapoli etrusca, ma secondo Strabone vantava origini ancora più remote, anteriori all’insediamento dei Tirreni giunti, racconta Erodoto (I 94), dalla Lidia (ma autoctoni invece per Dionigi d’Alicarnasso, I 30); il geografo annota  infatti che la città chiamata Agylla dai Greci era stata  fondata dai Pelasgi venuti dalla Tessaglia (V 2,4), misteriosa popolazione in continuo spostamento alla quale dedica un lungo excursus (tesi avvalorata recentemente dalle ricerche linguistiche di Semeraro) e che,  assediata dai Tirreni, ricevette dai conquistatori il nome di Caere  dal saluto greco chaire. La “lidia Agilla” è in Virgilio patria del superbo ed empio Mezenzio (En.VII 647-654, VIII 470-519) cacciato dalla città per le sue efferatezze e alleato di Turno, ucciso con il figlio Lauso dal pius Aeneas (X 762-908).
  Strabone (V 2,3) biasima l’ingratitudine dei Romani verso gli abitanti di Caere che, al tempo dell’ incursione gallica contro Roma  (390), salvarono i rifugiati, accolsero il fuoco sacro e le Vestali e, combattendo contro i barbari che abbandonavano la capitale carichi di bottino, strapparono loro il tesoro consegnato dai vinti; tanta generosità fu però mal ripagata dai Romani, che concessero ai  Caeretani la cittadinanza ma senza diritto di voto (civitas sine suffragio). Invece la città, osserva il geografo,  godeva presso i Greci di ottima fama per il valore e per il senso di giustizia: infatti si asteneva rigorosamente dalla pirateria a differenza degli altri Etruschi dediti alle razzie per mare dopo il crollo della loro potenza economica, ed era inoltre devota ad Apollo Pizio.
  La prosperità di Agilla-Caere, derivante soprattutto dai commerci marittimi che facevano capo al suo attivissimo porto di Pirgi, è attestata dal “Donario degli Agillei” a Delfi e inoltre dalla ricchissima suppellettile d’importazione greca e orientale rinvenuta negli scavi, in parte conservata nel Museo Cerinate in parte nel Museo di Villa Giulia a Roma. Ma di una città un tempo così splendida e illustre si conservavano poche tracce già in età augustea,  come  annota Strabone aggiungendo che le vicine fonti calde Ceretane (oggi Bagni di Sasso) erano più popolate rispetto alla città grazie a quelli che vi si recavano a scopo di cura.
  Resta però la testimonianza della splendida civiltà etrusca nel momento del suo massimo fulgore nella città dei morti, in particolare nelle tombe a tumulo dell’ VIII-VI sec. della Necropoli della Banditaccia che fiancheggiano il dedalo delle stradine, varie per imponenza e per tipologia ( rispecchiano infatti l’articolata stratificazione sociale):  in esse  è  ricreato l’ambiente della casa del defunto e della sua famiglia e sono evocate le attività praticate in vita. Alcune tombe a camera conservano ancora decorazioni (splendida la Tomba dei Rilievi) e tracce di pittura che rievocano momenti della vita privata e pubblica dei defunti, ma sono state spogliate dei magnifici corredi di vasi greci; proprio da una di queste sepolture proveniva la Coppa di Eufronio, uno dei capolavori perduti  recentemente restituiti all’Italia, ammirata dai soci dell’AICC di Treviso nella bella mostra di Mantova La forza del bello: il celebre pittore antico vi raffigura il Sonno e la Morte alati che trasportano il cadavere del re dei Lici Sarpedone, ucciso da Patroclo, nella sua terra natale, dove (come racconta Omero: Il. XVI 431-457, 665-683) avrà sepoltura secondo il rito del luogo, non incenerito sul rogo ma tumulato in una tomba nella roccia.  
  Nel labirinto dei tumuli immersi nel silenzio, sorprendente segno di vita (ma anche dell’incuria umana) è la vegetazione che spunta tenace ai piedi delle collinette e tra le pietre delle tombe, con le belle fioriture di varie specie locali.

A cura della Prof.ssa Maria Grazia Caenaro

1 commento:

  1. Veramente interessante ed avvincente.
    Un racconto degno della Periegesi di Pausania!

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