L'Oreste di Euripide al Teatro Olimpico di Vicenza

Teatro Olimpico di Vicenza, Oreste  di Euripide (26 settembre 2010)

  Dopo Eracle di Euripide e Trachinie di Sofocle al Teatro greco di Siracusa nel giugno 2007 e dopo Andromaca di Euripide all’Olimpico di Vicenza nel settembre 2009, Oreste di Euripide è stato il terzo appuntamento dell’AICC di Treviso con il dramma antico.
  Per il 63 ciclo di rappresentazioni classiche il Teatro Olimpico ha presentato  lo spettacolo prodotto dal Teatro Nazionale Greco di Atene, con  la regia del direttore del Teatro, Yannis Hourvadas, recitato in greco moderno (con la traduzione originale  di Davide Susanetti, appositamente commissionata dal Teatro Stabile del Veneto, proiettata in contemporanea su due megaschermi ai lati della scena).
  Di questo complesso dramma, rappresentato per la prima volta all’Olimpico nei suoi 500 anni di vita, il regista ha voluto dare una lettura fedele al testo ma con attenzione rivolta all’oggi; pertanto, con il dichiarato  proposito di seguire le tracce del mito con un respiro contemporaneo, dà  particolare rilievo ad alcuni nuclei della tragedia che portano lo spettatore a interrogarsi sullo scontro generazionale, sul rapporto uomo-donna, sulla coesione sociale, sulla sopravvivenza dei giovani in un mondo ostile. La dimensione atemporale della vicenda è ben sottolineata dalla rinuncia ad abiti di scena: tutti gli attori e i coreuti indossano vesti  comunissime, quasi banali, e senza tempo sono anche le acconciature che connotano soltanto, senza particolare accentuazione, età e rango sociale. 
  Oreste è l’ultima tragedia rappresentata in Atene da Euripide, filosofo della scena e democratico deluso, che subito dopo andò in volontario esilio in Macedonia per sfuggire a un’imputazione di empietà e tradimento e alla sicura condanna. Era la primavera del 408: si avvicinava la catastrofe della città, con la sconfitta nella trentennale guerra del Peloponneso, la caduta della democrazia e  l’istituzione della tirannide dei Trenta; Oreste è pertanto il dramma dell’eroe criminale e al tempo stesso il dramma del declino della democrazia ateniese.
 Nel “tramonto delle favole antiche”, il razionalista Euripide riprende il mito del matricidio già trattato dagli altri tragici ponendo in dubbio che l’uccisione sia stata ordinata dalla divinità per ristabilire giustizia e mette in scena le conseguenze psicologiche e sociali del “santo delitto”: Oreste respinto da tutti come impuro, stanco e malato, tormentato da attacchi di delirio e amorevolmente assistito solo dalla sorella Elettra, nel giorno in cui l’assemblea degli Argivi sta per decidere della sua sorte è abbandonato al suo destino da Menelao appena ritornato in patria con Elena e maledetto dal nonno Tindareo che va a chiedere al tribunale popolare giustizia per la figlia uccisa, mentre solo l’arrivo dell’amico Pilade gli dà conforto e sostegno. Condannato a morte con la sorella dagli Argivi soggiogati dall’abile eloquenza di un demagogo, Oreste ottiene tuttavia, per riguardo alla memoria di Agamennone, di darsi morte assieme a Elettra con le proprie mani; prima di suicidarsi con loro per condividere la sorte degli amici Pilade propone però di uccidere Elena responsabile di tutti i mali e  di nobilitare con una giusta vendetta la fine immeritata; viene così predisposto il piano per sorprenderla all’interno della reggia, e proprio mentre i tre si scambiano l’ultimo saluto, all’improvviso Elettra fa balenare la speranza d’aver salva la vita minacciando Menelao di uccidergli la figlia Ermione, attirata con l’inganno nella reggia; ma quando la divina  figlia di Zeus si dissolve come un fantasma nell’aria, Oreste, inasprito dal vanificarsi della vendetta, sta per sgozzare la giovane cugina innocente e incendiare la reggia, ormai vittima dell’impulso cieco omicida. Il nodo tragico è sciolto repentinamente con un efficace colpo di scena per intervento del deus ex machina, Apollo: è appunto l’enigmatico dio di Delfi il misterioso personaggio vestito di un elegante abito bianco, con gli scarpini dorati, apparso più volte sullo sfondo durante l’azione che ora, ponendosi all’improvviso di fronte agli spettatori, con lo stesso gesto imperioso raffigurato da Fidia nel Partenone ferma il precipitare degli eventi e seda la tempesta, preannunciando il matrimonio di Oreste con Ermione e  di Elettra con Pilade, e promettendo la  purificazione e la reintegrazione del matricida in tutti i diritti di erede di Agamennone.
  Oltre che nella caratterizzazione del dio l’abilità del regista si apprezza anche nell’impiego del coro costituito da una brigata di giovani in jeans e maglietta (turisti o studenti in gita scolastica) che  all’inizio del dramma guardano distrattamente le architetture classicheggianti della scena scamozziana, poi circondano incuriositi gli  attori, ascoltano i lamenti di Elettra, osservano stupiti le convulsioni di Oreste, seguono con progressiva partecipazione i serrati confronti verbali dei tre personaggi con i loro antagonisti, a poco a poco non più spettatori ai margini dell’azione, finché  entrano nella vicenda solidali e compatti, non più isolati o a piccoli gruppetti ma tutti  coinvolti per empatia nel dramma dei giovani del mito. Proprio il coro, spesso presenza ingombrante nelle riprese moderne di drammi classici, per l’abile  scelta del regista svolge un ruolo efficace e recupera l’antica funzione di mediatore tra la scena e il pubblico: attraverso i ragazzi del coro anche gli spettatori entrano poco a poco nel cerchio magico della finzione scenica e come i giovani, all’inizio estranei all’antico, scoprono il senso perenne del dramma umano. A questo coinvolgimento contribuisce  il ritmo della recitazione sia degli attori che del coro, rapida e improntata alla massima espressività sonora, mentre efficaci intermezzi suonati al pianoforte  accompagnano  i momenti  focali dell’azione scenica e sottolineano  nel finale il drammatico precipitare degli eventi e l’inaspettato scioglimento.

A cura della Prof.ssa Maria Grazia Caenaro